La premessa dell’AR5 e il fallimento degli Accordi di Copenaghen hanno portato all’Accordo di Parigi del 2015.  La novità giuridica dell’Accordo di Parigi è stata l’insieme interconnesso di articoli che illustrano la sua peculiare architettura di mitigazione giuridicamente vincolante (Mace, 2016). Tuttavia, definire l’Accordo di Parigi “vincolante” potrebbe essere un’esagerazione. Gli articoli in questione sono l’art. 2.1(a), che stabilisce l’obiettivo della temperatura a lungo termine (LTTG), e l’art. 4.1, in cui gli obiettivi di mitigazione a lungo termine sono concretizzati. Questi ultimi devono essere confrontati con i Contributi Determinati a Livello Nazionale (NDC) che richiedono ai firmatari di mostrare un’azione tangibile, efficace e misurabile nella lotta alle emissioni di gas serra. Inoltre, nell’architettura tecnica dell’Accordo di Parigi, l’art. 4.3 esprime il carattere ambizioso del trattato, in quanto stabilisce che ogni parte è tenuta a “rappresentare un’evoluzione rispetto ai contributi nazionali determinati in quel momento dalla parte”.

Accordo di Parigi e i suoi punti di forza e debolezza

Il percorso che ha portato alla formalizzazione dell’accordo non è stato facile. È nato dai fallimenti della Convenzione di Copenaghen, dall’instabilità politica del Protocollo di Kyoto e dalla fragilità dell’UNFCCC. Tuttavia, contro ogni previsione, lo sforzo dei ministri delle parti dell’accordo è riuscito a produrre quello che abbiamo oggi. Creando un accordo che ha rotto lo “stallo del riscaldamento globale”. È stato creato un meccanismo che è lontano da un approccio “bottom-up”, ma si distanzia anche dalle idee di Copenaghen di un forte meccanismo “top-down”. Si basa sul meccanismo “bottom-up” del “naming and shaming”, ovvero un sistema di richiamo all’attenzione sull’operato poco etico o inefficace in ambito climatico.

L‘Accordo di Parigi pone le basi per la cooperazione internazionale, creando un quadro unitario con revisioni periodiche e l’intensificazione delle ambizioni, sotto una nuova base di architettura “ibrida”. L’approccio adottato nell’Accordo di Parigi implica che le parti dell’UNFCCC dichiarino unilateralmente l’azione che sono disposte a intraprendere, stravolgendo l’approccio top-down incorporato nel Protocollo di Kyoto. Il sistema bottom-up garantisce ai paesi una notevole flessibilità nella scelta di come affrontare il cambiamento climatico, ma presenta delle limitazioni.  L’Accordo di Parigi ha fissato obiettivi temporali che devono essere rinnovati ogni 5 anni, a testimonianza di questo all’art. 4.9 dove le parti devono, ogni 5 anni, presentare i loro NDC. Ciò ha introdotto il concetto di bilancio globale, che è la parte scientifica che ha permesso all’Accordo di Parigi di essere allineato con la comunità scientifica. Il bilancio consente di valutare il livello di ambizione nel tempo, rendendolo misurabile e tracciabile. Nel complesso, l’Accordo di Parigi ha posto le basi per accelerare la mitigazione, l’adattamento e la lotta contro i cambiamenti climatici, costruendo un sistema internazionale di responsabilità climatica.

Il primo bilancio dopo l’Accordo di Parigi del 2015 è stato durante la COP28, nel dicembre 2023 e i risultati sono stati allarmanti. Non sorprende che gli NDC non siano allineati a quanto pianificato durante gli accordi del 2015. Per citare esplicitamente il documento di bilancio: “Rispetto alle previsioni fatte prima della sua adozione, l’Accordo di Parigi ha portato a contributi che riducono significativamente le previsioni del riscaldamento futuro, eppure il mondo non è sulla strada giusta per raggiungere gli obiettivi a lungo termine dell’Accordo di Parigi”.

Ciò dimostra che, sebbene l’Accordo di Parigi abbia contribuito alla diminuzione degli obiettivi di emissione, un approccio bottom-up basato sul principio del “naming and shaming” potrebbe non essere l’opzione migliore per risolvere il problema del cambiamento climatico. Lascia un alto grado di flessibilità che si traduce troppo spesso in inattività, creando un problema di opportunismo (“free-riding”). L‘Accordo di Parigi ha creato una logica di “gioco a due livelli” che riunisce la politica climatica nazionale e l’interazione strategica tra i paesi.

Il Green Deal Europeo

Dopo l’Accordo di Parigi c’è stata una sorta di “corsa all’oro” verso soluzioni politiche nazionali per affrontare meglio il cambiamento climatico e accelerare la transizione climatica. In questo contesto, l’Unione Europea (UE) sta cercando di vincere la medaglia d’oro. Dall’Accordo di Parigi, l’UE ha emanato una serie di regolamenti e direttive per stabilire linee guida per la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. Di fondamentale importanza è stato il progetto del Green Deal Europeo (EGD). Presentato nel 2019, il Green Deal rappresenta la strategia globale dell’UE per guidare la sua transizione verso un’economia climaticamente neutra entro il 2050. Mira a trasformare l’economia europea in settori come l’energia, i trasporti, l’agricoltura e l’edilizia, promuovendo l’efficienza delle risorse e garantendo una transizione giusta e inclusive.

 

Con il Green Deal, l’UE sperava di avviare un “effetto valanga” che permettesse ai paesi di allinearsi agli obiettivi di Parigi e a quelli fissati dall’UE (Skjærseth, 2018). Nel complesso, può essere concettualizzato come una “tabella di marcia delle politiche chiave per l’agenda climatica dell’UE”.

Lo sviluppo storico delle politiche sul cambiamento climatico

Dalla fine degli anni ’90, la comunità scientifica ha iniziato a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle conseguenze che le azioni umane stavano avendo sul clima. Queste azioni, rappresentate dall’uso estensivo di combustibili fossili, alteravano l’equilibrio nella forzatura radioattiva dell’atmosfera, causando un aumento della temperatura globale che si traduceva in eventi climatici estremi, minacciando l’intero pianeta. La comunità internazionale, riconoscendo la necessità di agire per evitare un punto di non ritorno dai risvolti catastrofici, ha deciso di unirsi per trovare una soluzione. Lo sviluppo delle politiche sul clima è stato un percorso che ha dovuto affrontare molteplici sfide e critiche. I primi passi sono stati compiuti dalla comunità scientifica con la pubblicazione del primo Rapporto di Valutazione (AR, Assessment Report) da parte dell’IPCC. Questo rapporto ha mostrato per la prima volta, da una prospettiva unitaria, quali fossero i problemi climatici da affrontare, evidenziando tendenze allarmanti e spingendo verso la necessità di un accordo internazionale.

 

La risposta è arrivata con la UNFCCC, la prima convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Attraverso questo strumento politico, i firmatari della convenzione hanno concordato alcuni impegni generali, come la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. Tuttavia, essendo un impegno non vincolante, si è rivelato meno efficace del previsto, ma ha posto buone basi per l’ulteriore sviluppo di altri trattati. La politica relativa alla transizione climatica ha continuato a svilupparsi ed evolversi, attraverso i fallimenti degli accordi di Copenaghen e i piccoli passi del Protocollo di Kyoto, con l’Unione Europea come pioniere di questa trasformazione. Tutto ciò ha portato all’Accordo di Parigi, che ha creato un sistema considerato da alcuni efficace, mentre da altri troppo debole, a causa di un approccio di “naming and shaming” (richiamare all’attenzione) che fatica a vincolare i firmatari a obiettivi specifici.

 

Complessivamente, nello sviluppo degli strumenti politici per affrontare il problema del cambiamento climatico si possono osservare una serie di fattori:

 

  • L’equilibrio tra interessi internazionali e nazionali: esiste un interesse della comunità internazionale a ridurre le emissioni di gas serra in tutto il mondo. Tuttavia, questo si scontra con gli interessi nazionali e gli obiettivi di sviluppo di alcune nazioni, causando un disallineamento sugli obiettivi climatici.
  • Il carattere semi-vincolante delle attuali politiche sul clima: l’efficacia degli accordi dipende fortemente dal comportamento dei singoli paesi, con l’eccezione dell’UE che, per sua natura, può obbligare i suoi stati membri ad agire. Di conseguenza, esiste un problema intrinseco di “free-riding” (opportunismo) che potrebbe causare la frammentazione degli obiettivi climatici.
  • Il ruolo del resto della comunità internazionale: enti pubblici, privati e pubblico-privati forniscono un importante contributo e una guida ai cittadini e alle industrie ad alto impatto ambientale per allineare i loro interessi con gli obiettivi climatici internazionali.

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